Ci sono cose che bisogna sapere.
Esistono leggi non scritte, scolpite nel cuore di ogni ragazzino che prende un pallone in mano, in una calma mattina d’estate. Leggi ataviche, tramandate di generazione in generazione, che stabiliscono in modo imperituro che quello che veramente conta è avere il pallone.
Cielo grigio, stamattina, ma andiamo ugualmente al mare. Arriviamo al campetto da basket e non c’è nessuno. Ma c’è un pallone Wilson a bordo campo, solo e naufrago, che sorride di arancione.
Orde di ragazzini schiamazzanti rincorrono un pallone da calcio, nell’altro campo vicino. Il calcio, si sa, sport nazionale.
Tra i tanti distinguo il fenomeno, quello che non puoi non guardare. È un ragazzino grassoccio e tarchiato, abbronzatissimo, con questo ciuffo nero svolazzante e una parlata dialettale dagli esiti letali. Corre come un matto e gioca da solo, mentre il resto della squadra lo rincorre da un lato all’altro del campo, implorando inutilmente “Passa!”.
Ma il calcio, si sa, sport nazionale.
Così dico a Jacopo e a Federico “Facciamo due tiri al canestro?” E loro scattano, felici.
Fede prende la palla e comincia. Mi piace il suo modo schivo di giocare. Mi piace l’istintività con cui fa il terzo tempo e mette la palla nel canestro, sempre.
Jacopo, invece, fa fatica. Gli pesa ancora la percezione del canestro come vetta inarrivabile per la sua altezza, lui che è piccolino e avrebbe bisogno di una pedana per i salti per riuscire almeno ad illudersi di poter sfiorare il ferro.
Ma questo è un campetto da spiaggia e quello è un canestro basso. Signori, è il momento dei miracoli. E bastano due dritte su come tirare la palla. Si spinge con le gambe. Si tira col braccio, si muove il polso immaginando che segua la parabola della palla. Robe così. Che solo l’amore.
Ci prova una due tre volte e alla fine fa canestro. Urla di felicità. Salti di gioia che manco una finale dei playoff.
Restiamo ancora lì ed è bellissimo vedere come la palla entra facile nel cerchio perfetto, ben al centro di questo momento epocale in cui Jacopo scopre di saper fare canestro.
All’improvviso una voce alle spalle.
“Quel pallone è mio!”
“Ah, scusa, lo avevamo trovato qui…” rispondo io, e mi trattengo dal dire eri tu che correvi nell’altro campo come un indemoniato? Ma come, fin qui sembravi il figlio spurio di Maradona e appena noi facciamo due tiri ti ricordi che il pallone è tuo? Ma sto zitta. Chè non sono mica Enzigirl.
“Me lo restituite?”
“Ma certo…”
E come per magia arrivano in corsa altri cinque ragazzini urlanti. Un assedio in piena regola.
“Allora, la squadra la decido io” dice il ciuffato.
“E perché?” osa rispondere uno dei cinque.
“Perché il pallone è mio. Facciamo noi tre contro voi tre”.
“Ma non vale, voi tre siete i più forti”
“Se vuoi giocare a basket è così”.
Assistiamo alla scena zitti zitti. Siamo fuori, non c’è altro da dire. E non conta più la felicità cestistica di Jacopo che in una mattina di cielo grigino si é improvvisamente scoperto Steph Curry.
Comanda chi ha il pallone. Detiene insindacabilmente il potere supremo, è padrone del tempo, delle regole e pure dei desideri.
Comanda chi ha il pallone. E il resto del mondo muto.