Wilson

Ci sono cose che bisogna sapere. 

Esistono leggi non scritte, scolpite nel cuore di ogni ragazzino che prende un pallone in mano, in una calma mattina d’estate. Leggi ataviche, tramandate di generazione in generazione, che stabiliscono in modo imperituro che quello che veramente conta è avere il pallone. 

Cielo grigio, stamattina, ma andiamo ugualmente al mare. Arriviamo al campetto da basket e non c’è nessuno. Ma c’è un pallone Wilson a bordo campo, solo e naufrago, che sorride di arancione. 

Orde di ragazzini schiamazzanti rincorrono un pallone da calcio, nell’altro campo vicino.  Il calcio, si sa, sport nazionale.

Tra i tanti distinguo il fenomeno, quello che non puoi non guardare. È un ragazzino grassoccio e tarchiato, abbronzatissimo, con questo ciuffo nero svolazzante e una parlata dialettale dagli esiti letali. Corre come un matto e gioca da solo, mentre il resto della squadra lo rincorre da un lato all’altro del campo, implorando inutilmente “Passa!”.

Ma il calcio, si sa, sport nazionale.

Così dico a Jacopo e a Federico “Facciamo due tiri al canestro?” E loro scattano, felici. 

Fede prende la palla e comincia. Mi piace il suo modo schivo di giocare. Mi piace l’istintività con cui fa il terzo tempo e  mette la palla nel canestro, sempre. 

Jacopo, invece, fa fatica. Gli pesa ancora la percezione del canestro come vetta inarrivabile per la sua altezza, lui che è piccolino e avrebbe bisogno di una pedana per i salti per riuscire almeno ad illudersi di poter sfiorare il ferro.

Ma questo è un campetto da spiaggia e quello è un canestro basso.  Signori, è il momento dei miracoli. E bastano due dritte su come tirare la palla. Si spinge con le gambe. Si tira col braccio, si muove il polso immaginando che segua la parabola della palla. Robe così. Che solo l’amore.

Ci prova una due tre volte e alla fine fa canestro. Urla di felicità. Salti di gioia che manco una finale dei playoff.

Restiamo ancora lì ed è bellissimo vedere come la palla entra facile nel cerchio perfetto, ben al centro di questo momento epocale in cui Jacopo scopre di saper fare canestro.  

All’improvviso una voce alle spalle.

“Quel pallone è mio!”

“Ah, scusa, lo avevamo trovato qui…” rispondo io, e mi trattengo dal dire eri tu che correvi nell’altro campo come un indemoniato? Ma come, fin qui sembravi il figlio spurio di Maradona e appena noi facciamo due tiri ti ricordi che il pallone è  tuo? Ma sto zitta. Chè non sono mica Enzigirl. 

“Me lo restituite?”

“Ma certo…”

E come per magia arrivano in corsa altri cinque ragazzini urlanti. Un assedio in piena regola.

“Allora, la squadra la decido io” dice il ciuffato.

“E perché?” osa rispondere uno dei cinque. 

“Perché il pallone è mio. Facciamo noi tre contro voi tre”. 

“Ma non vale, voi tre siete i più forti”

“Se vuoi giocare a basket è così”.

Assistiamo alla scena zitti zitti. Siamo fuori, non c’è altro da dire. E non conta più la felicità cestistica di Jacopo che in una mattina di cielo grigino si é improvvisamente scoperto Steph Curry.

Comanda chi ha il pallone. Detiene insindacabilmente il potere supremo, è padrone del tempo, delle regole e pure dei desideri. 

Comanda chi ha il pallone. E il resto del mondo muto.

 

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Per esempio 

Il cancello si apre e hai questa discesa ripidissima davanti. 

Non puoi farcela. 

Certo, lo sai che i freni frenano e che la tua bici sa andare ovunque, ma per scendere in gola a questo inferno qui ci vuole Enzigirl, diamine. 

Eppure non hai scelta. 
La bici nell’androne non può stare, devi metterla in garage, ripete quella vocetta stridula con tanto di ghigno satanico, mentre le porte dell’ascensore si chiudono e il dottore malefico sparisce nel buio del secondo piano. 

 

Conta poco che questa discesa conduca nel ventre della terra, più o meno all’altezza del conte Ugolino, in un luogo oscuro che ti fa un orrore nero, con tutto quel buio fatto di angoli misteriosi, polvere millenaria, ombre multiformi ed esseri striscianti che non sai. 
Conta poco che fin qui tu sia riuscita a rimandare questo momento, ignorando i divieti, tentando di nascondere la bici dietro la colonna, nell’androne del palazzo. 

Perché il dottor malefico, ogni volta, si è preso la gran cura di spostarla fuori. 

Così, dopo la pompa e la dinamo, quando anche la catena è sparita, è arrivato dai tuoi l’ordine ineluttabile di parcheggiare la bici in garage. 
E adesso hai davanti questo cancello spalancato sul ventre della terra e devi entrarci dentro. 

Allora schiacci il pulsante. 

Arriverà Enzigirl, prima o poi. 
Molli i freni, chiudi gli occhi e senti la bici partire, la senti filare giù leggera e rapida. Sempre più veloce. Sempre più veloce. 

Basta poco per capire di non averne più il controllo. Apri gli occhi e resti al buio. Provi a frenare ma è tardi e non riesci a dosare la stretta e la bici si impunta e voli nel nero. 
Ma il tuo è un atterraggio morbido. 

C’è questo ragazzo biondo che lancia un urlo. Devi essergli franata addosso. 

Provi a chiedergli scusa ma lui si alza, si sistema i vestiti e ti tende una mano. 

Ti sei fatta male? 

No, no. Ti affretti a rispondere, presa alla sprovvista dalla dolcezza della sua voce. 
E poi non lo sai com’è che resti impigliata per un tempo infinito in quei suoi occhi azzurri, che sanno di paradiso inatteso al centro dell’inferno. 
Fino al momento in cui, in ascensore, lui dice Ciao, io scendo qui. 

Ed è giusto lì che ti svegli, proprio in tempo per vederlo sparire nell’ombra del pianerottolo, al secondo piano. 

Lo stesso del dottore malefico. 
Deve esserci qualcosa che non torna, in questa storia. 

Enzigirl, per esempio. 

Tetris

Le mattine in cui la vita ha il profumo della prima pagina di un quaderno nuovo, le mattine così.

E non importa se hai appena traslocato e ci sono scatoloni ovunque e hai perso il senso minimo dell’orientamento e non hai idea di dove cercare anche una cosa semplice e pacifica come i calzini puliti.
Non importa se la tua stanza zeppa di scatole ti sembra un perfetto incastro alla Tetris e ogni volta che riesci ad infilartici dentro ti pare che parta la musichetta di quando completi una riga.
Non importa.
Ti piace questa casa, l’odore di nuovo dei mobili, il taglio di luce che al mattino entra dalle finestre, lo stupore degli angoli inattesi, il gusto bello di dare un posto diverso alle cose.

Ti piace questo sapore di felicità leggera che ha la tua casa nuova.

Ti piace nonostante tutti quei divieti.
Non si corre scalzi, non si trascinano le sedie, non si fanno cadere cose sul pavimento perché ora viviamo in un condomino e al piano di sotto c’è il dottore. E il dottore si arrabbia.

Ecco, il dottore del piano di sotto ti piace meno.
Lo incontri in ascensore, di tanto in tanto e ne faresti a meno volentieri. Non ti piace quella sua faccia incartapecorita, quegli occhi inquisitori, quella vocetta stridula, quell’aria da avvoltoio ingobbito sulla riva del fiume.

E ogni tanto ti tocca incontrarlo in ascensore.
Con gli altri condomini è facile, non ci hai messo molto ad impararlo. Basta dire un buongiorno educato e sostenere il loro sguardo giusto il tempo della loro cortese risposta distratta, per poi osservarli mentre si dedicano a fissare con attenzione la punta delle loro chiavi, o una macchiolina invisibile sull’unghia o un punto indecifrabile nel vuoto dei pensieri, sospesi sul ma quando diamine arriva quest’ascensore.

Invece col dottore è diverso.
Lui ti fissa per tutto il tempo con un silenzioso ghigno malefico e poi, dieci secondi prima dell’agognata apertura delle porte, ti fa una delle sue domandine a lento rilascio di cattiveria: scommetto che è tua quella bici parcheggiata nell’androne del palazzo e scommetto che non sei abituata a leggere i cartelli coi divieti, vero?

Hai ragione, dottor malefico, la bici nell’androne non ci può stare, ma dove la metto? Il garage è pieno di scatoloni. Qui il cortile non c’è, solo strade e strade, ed io non lo so bene come si fa ad incastrarsi in questa vita nuova.

Vorresti rispondergli d’un fiato ma poi l’ascensore è arrivato e lui sparisce nell’oscurità della sua casa, così ti restano le parole appese sulle labbra e questo senso di sconfitta che non sai dire.
Ed è lì che intuisci che questa vita nuova che vivi è come una partita a Tetris e tu devi soltanto imparare ad infilare d’istinto gli incastri, velocemente, senza pensarci su troppo, aspettando il momento in cui, lo sai, il pezzo giusto arriverà a risolverti tutti i vuoti che senti.
E quando, finalmente, ogni riga incompiuta comincerà a completarsi, non dovrai far altro che goderti la musica.

Tempo sospeso 

E poi la vita risponde. 
Tuo papà ti dice abbiamo comprato una casa nuova. Tua mamma annuisce, felice. 

E tu resti in silenzio, senza comprendere che questa vita è già inesorabilmente altro. 

Resti in silenzio e non sai quel che ti attende. Perché questa cosa di fare un trasloco ti appare persino divertente. Una promessa profumata di futuro, l’odore di nuovo sparso intorno, una finestra di luce inattesa nella liturgia consueta dei giorni.

Non lo intuisci nemmeno lontanamente il significato oscuro della parola trasloco e attraversi questo tempo sospeso saltellando tra attese e nostalgie. 

Ma non ci metti molto a capire che il trasloco è un luogo fisico, precisamente l’anticamera dell’inferno, con tanto di voragini nere e demoni danzanti. 

Ed osservi con puro terrore tua madre che accumula scatoloni in cui far sparire poco a poco tutte le tracce visibili della tua vita. 
Lei, prof di matematica laureata in scienze statistiche, li riempie con un rigoroso metodo scientifico, considerando le variabili della memoria, le probabilità di dispersione, le percentuali di riutilizzo. 

E poi annota tutto su un quadernino che quando provi a sfogliarlo persino la stele di Rosetta ti pare un sussidiario delle elementari. 

Così, nella luce infernale del rigore metodologico, tutto ciò che conosci della tua vita sparisce, risucchiato dalle viscere degli scatoloni demoniaci. Le foto sorridenti, i libri colorati, i vestiti, persino quei soprammobili buffi, i centrini orribili, le bomboniere di Capodimonte, la misteriosa bottiglia carciofata del Cynar.

Restano i mobili nudi, il camino chiuso, il pensile che per anni è stato la tua massima ambizione di crescita in altezza, l’angolino in cui ti nascondevi quando tentavi di sfuggire alle ciabatte volanti di tua nonna, le mattonelle su cui saltavi per ore con la missione impossibile di non toccarne i bordi.

Il trasloco è sparizione. Svuotamento. 

E sospensione di sogni e desideri. Sospensione di vita, anche. 

Non hai più il tuo vecchio mondo e non ne hai ancora uno nuovo. 

Così ti sale un nodo in gola.

Perché tra poco dovrai lasciarlo, quell’universo incastrato tra le case che fin qui ha custodito tutta la tua felicità di ragazzina. 

Dovrai lasciare il tuo cortile e forse pure Enzigirl con le sue mille avventure. 

E cosa ti aspetta, dopo, non lo sai. 

Magari sarà bellissimo. Magari no. 

E allora non puoi far altro che saltellare tra nostalgie e attese, schivando il momento in cui gli scatoloni infernali di tua madre, te lo senti, ingoieranno anche te. 

Crescere

E un giorno ti accorgi che la tua felpa preferita non ti sta più. Sei cresciuta. 

Eppure mica te lo ricordi quando è successo. Mica te ne sei accorta. 
Crescere è uno di quei misteri che sfuggono ai sensi. Che nel quieto fluire dei giorni mai riesci a cogliere. 

È la manica corta di una felpa che ti sussurra Sei cresciuta. E non c’è verso di far finta di nulla. 
Così ti spii allo specchio e ti vedi diversa. Chè, poi, sei uguale a ieri ma qualcosa sfugge. Un dettaglio, un particolare, un nulla impalpabile. Nello specchio hai questo viso che non sai più. 
E cominci a guardarti intorno. 

Capisci che le Barbie hanno le tette e tu no. Hanno pure un Ken sempre al loro fianco. E sorridono, cavoli. Ma tu il Ken non ce l’hai e così butti l’occhio sul Big Jim dei tuoi amici. 

Non ci metti molto a capire che il loro è un Big Jim Mille Facce e questa cosa, devi ammetterlo, ti genera un pochino d’ansia. Pulsante dietro la schiena, faccia che cambia. Ed ogni faccia ha un senso. 

Così cominci a pensare che non è solo una questione di Big Jim, che ogni cosa ha tanti volti e che non è affatto facile capire quale sia il tuo. Sai solo che per trovare la faccia giusta bisogna provare e schiacciare un pulsante che non sai.
L’unico pulsante che conosci è quello della tua bici, che mille volte ti ha fatto diventare Enzigirl. Ma questa cosa adesso non ti basta più. 

Perché il mondo fuori da quel cortile ha cominciato guardarti con occhi ammiccanti.

E ti ha confuso. Quel bacio rubato sui pattini ti ha confuso. La sensazione che lì fuori ci sia qualcosa di meraviglioso ad attenderti ti assedia.

Eppure senti quest’incertezza. Questa vaghezza nello sguardo, che si impiglia in un orizzonte luminoso ma sfocato. 

Un orizzonte lontano, in cui i tuoi desideri e le tue paure danzano senza sosta.

Vorresti restare al caldo del tuo cortile e tornare ad essere Enzigirl ancora e ancora, perché lei lo sa quello che vuole, lo sa cosa deve fare, sa di tutti i suoi nemici e di tutte le sue sfide, lo sa, beata lei, e tu no. 

Eppure comprendi che non serve a nulla nascondere le mani nelle tasche e fingere che quella manica arrivi a coprirti i polsi.
Confusa nella luce cangiante di questo universo incerto, ti ritrovi a stringere i freni della tua bici e a non capire bene dove andare. 

Cosa fare. 

Come sentirti. 

E, nell’incertezza che ti divora gli occhi, questo posto qui ti sembra persino confortante.

La senti nitida dentro di te quella voce che ti dice Non muoverti. Potresti restarci per secoli ferma immobile in questo cortile. 
Perché cambiare spaventa. 

Accidenti se spaventa.

L’arcobaleno

C’è questa foto di lui che saluta e, dietro, l’arcobaleno. 

Che, poi, non lo so se sta salutando per davvero oppure se gli esce dalla mano, l’arcobaleno, come fosse uno dei suoi tanti assi nella manica, tirati fuori per strappare un sorriso a chi, come me, attarda lo sguardo su questa foto. 
Sorride nella foto, Enzo. 

Sorride e mi lascia quest’ultimo ricordo di sé. Questo ricordo luminoso e colorato, come tutti quelli che conservo di lui. Perché Enzo è stato uno dei tanti in cui ho cercato un pezzetto di mio padre. 

Mio papà è andato via quando era troppo presto ed è stato naturale per me negli anni cercare qualcosa di lui negli altri padri. Quello che trovavo erano solo brevi lampi di somiglianza, frammenti cangianti, tessere di un puzzle dai contorni difformi, capaci di darmi soltanto un’idea di come deve essere questa cosa di crescere con un papà al proprio fianco.

Tra le mie tessere, Enzo è sempre stata la più luminosa e la più colorata. Di quelle che in un attimo ti costruiscono l’arcobaleno sotto gli occhi, senza fatica. 
E ti fanno ridere e ti fanno pensare che la vita è bella, sempre. Anche quando un male oscuro ti divora dentro. Anche quando la morte si fa vicina e ti chiama a sé. 

Ecco, io vorrei impararla, questa lezione qui. Che la morte fa parte della vita e si può andarle incontro col sorriso. 
E invece quanta fatica. Perché passiamo tutta la vita ad allontanare l’idea della morte e a nasconderla con cura nei meandri della nostra anima. Come se fosse una cosa che, tutto sommato, non riguarda noi. 

Per poi stupirci quando arriva. 

Per poi restare senza parole quando ce ne chiedono il senso. 
Basta poco, basta una sera d’autunno, un respiro di buio opprimente, la notte nera che avanza. Basta una domanda di Jacopo, inattesa e straniante. 

– Mamma, è vero che tutti dobbiamo morire?

Bastano i suoi occhi spaventati, la tristezza indicibile che gli senti dentro, quel bisogno di parole che dicano. 

E tu provi ad usare il tuo solito antidoto e gli rispondi che è una cosa lontanissima, perché deve prima diventar grande e poi vecchio ed ha un’infinità di tempo da vivere. Ma lo sai che non basta, lo sai che questa paura qui anche tu ce l’hai dentro. Silenziosamente e inconfessabilmente.  Soltanto, sei diventata parecchio abile a nasconderla. 

Nei momenti come questo intuisci quanto sarebbe bello riportare la morte entro i confini della vita e imparare a viverla come parte di essa. Perché la morte è parte della vita. Perché si nasce e si muore, come tutto quello che ci vive accanto. Perché, alla fine, è la morte che rende la vita così incredibilmente preziosa. E non pensarci significa perderne il senso e la meraviglia.
Enzo se n’è andato una mattina di questo novembre freddo e incerto. Ha combattuto la sua lunga battaglia sorridendo con ironia, con fierezza, con speranza indomita. 

E, quando è arrivato il momento, ha salutato tutti tirando fuori l’arcobaleno, convinto che la vita, anche quando finisce, è sempre una grande bellezza. 

Nitidi scatti

Si cresce lentamente, come fanno gli alberi. Ma si cresce anche per scatti, per bruschi strappi, per balzi improvvisi e cambiamenti inattesi.
Coi pattini ai piedi, però, si cresce più veloci. 
Perché pattinare ti dà la sensazione palpabile che il mondo resti indietro, sfumato sullo sfondo, mentre tu corri veloce nel vento. 

Perché sui pattini tutto quello che conta è la tua voglia di andare lontano, quel desiderio sfrontato di domare la strada, il coraggio testardo di cercare l’equilibrio sulle ruote, senza sentire la paura di cadere.

Pattinare era stato un regalo di mio padre. Era arrivato un giorno d’estate e mi aveva detto vieni, ti insegno. 

Mio papà era un prof di educazione fisica ma anche un uomo dalle idee brillanti e dallo sguardo lungo sul futuro. Quell’estate si era messo in testa di aprire una scuola di pattinaggio. Così un giorno mi mise i pattini ai piedi e mi insegnò. 

Mi convinse in un pomeriggio che era facile e che non mi sarei fatta male. Perché è la paura che ti fa cadere, non i pattini, ripeteva. Certo, c’era lui che mi teneva saldamente per le braccia, così ogni volta che perdevo l’equilibrio mi tirava su prima che toccassi terra. Ma alla fine aveva ragione. È la paura che ti fa cadere, sempre. 

Così io imparai a pattinare e lui aprì la sua scuola. Tra i tanti ragazzini che si allenavano in palestra, c’ero anch’io. 

Ma ero la figlia del prof e sapevo già pattinare. Questo mi dava uno speciale senso di libertà. Mentre tutti erano lì a imparare l’arte paziente di mettere i piedi uno dopo l’altro, tentando di non perdere l’equilibrio, io pattinavo veloce senza mai cadere. Perché non avevo più paura. 

Enzigirl aveva trovato la sua vera dimensione, fatta di vento, leggerezza ed equilibrio. E di passi incrociati, giravolte, scatti veloci e gesti atletici in equilibrio su una gamba. Enzigirl ora era davvero un supereroe che sfrecciava veloce in quella palestra affollata. E non c’era più bisogno di fare sfide, perché era su di lei che gli occhi di tutti brillavano. 

Confusi tra quel brillio c’erano anche gli sguardi di Alessandro. 

Era un ragazzo silenzioso, ma i suoi erano occhi neri, profondissimi, capaci di entrarti dentro senza fatica. Mi guardava sempre con insistenza, senza mai avere il coraggio di parlarmi. 

Del resto, tutti sapevamo che era fidanzato con Milena. Lei era una tipa massiccia e imbronciata, di quelle che ogni volta vincevano di dieci passi le gare di corsa della nostra scuola. Mettersi contro di lei, mai. Nonostante Enzigirl e i suoi pattini. Così anch’io guardavo Alessandro con insistenza, senza mai avere il coraggio di parlargli. 

Poi un giorno, quando tutti erano andati via dopo la lezione, lui tornó indietro, si affacciò alla porta della palestra e mi fece cenno di uscire.

Avevo ancora i pattini ai piedi quando, in strada, mi avvicinai a lui, curiosa. Fu in quel momento che mi diede un bacio sulle labbra. Del tutto inatteso e del tutto meraviglioso. Di quelli che ti fanno attraversare in un istante interminati spazi e sovrumani silenzi senza fatica alcuna. Un istante di nitida bellezza, destinato a restare immobile nello scorrere del tempo.

Ma quel momento non avrebbe cambiato il corso delle cose. 

Alessandro sarebbe rimasto il ragazzo di Milena ed io sarei restata per sempre solo e soltanto quella del bacio sui pattini, stilizzata e irreale come la tipa sulla locandina del Tempo delle mele. 

Eppure qualcosa era cambiato.

Era il mio primo bacio, quello. 

Se si cresce per strappi e balzi, quello era stato uno scatto nitido, forte e veloce, in perfetto equilibrio sui miei pattini in corsa verso un futuro sorridente. 

Quegli occhi

Nel cortile c’erano anche i luoghi oscuri, quelli in cui non si andava mai. Erano angoli strappati al pulsare della vita, logorati dal tempo e dalla decadenza, divorati dalle ragnatele polverose e dall’odore della rogna dei gatti.

Su quei luoghi i nostri occhi distratti scivolavano rapidi, per rimbalzare felici lontano, dove il sole batteva e l’estate esplodeva il suo profumo. 

Nell’angolo più buio del cortile c’era il Pondone, un arco incastrato tra le case, che spalancava la bocca di un vicolo cieco. Alla fine del vicolo c’era una porta sprangata. 

Era soltanto una casa abbandonata, ritta e scura alla fine della stradina, ricacciata nell’angolo più ostile del nostro mondo. 

Ma noi ne stavamo sempre lontani. Forse perché sapevamo che al Pondone ci era vissuta una strega. E ci era morta. Si raccontava che l’avessero trovata riversa sul pavimento, mesi dopo, col volto mangiato dai pipistrelli. 

Di questa cosa sembravamo non curarcene troppo, rapiti dai colori sfavillanti della nostra estate. Almeno fino al giorno in cui quel temporale ci costrinse a ripararci sotto l’arco del Pondone. Pioveva così forte che nessuno di noi si sarebbe azzardato a tornare a casa zuppo e grondante.

Mai eravamo stati così vicini a quel luogo oscuro e mai i nostri occhi erano stati così attratti dal suo magnetico sguardo. Fu un attimo notare che il chiavistello della porta era senza lucchetto. Non ci sarebbe voluto molto ad aprirlo. Qualcuno lo disse a voce alta. Bastò il lampo di quest’idea proibita, balenata sotto lo scroscio di un noioso temporale estivo, per spingerci a osare quello che mai avremmo creduto. 
Il chiavistello resistette un po’ per poi cedere sotto i colpi una pietra che avevamo scelto con cura. 

La porta si aprì con un cigolio e in un istante eravamo dentro un androne buio, che ingoiava la polvere sospesa nel taglio della luce di fuori. 

Camminare piano, attraversare l’oscurità, contare i passi e sentire i nostri occhi ciechi e inutili. Persino divertente. Ma poi, all’improvviso, un grido, un battito d’ali, un attacco inatteso, un presagio di inferno. E intorno il tramestio di chi fugge. 

-Ragazzi era solo un pipistrello… ragazzi?

Il rumore secco della porta contro lo stipite. Erano fuggiti tutti via, morsi dal panico, e avevano dato una spallata alla porta che si era richiusa, pesante. 

Il buio nero, il cuore che batteva, l’ansia che saliva ed io sola lì. Corsi verso la porta, attraversando d’un balzo quell’oscurità ostile. Chiusa. Provai a spingere, non si apriva. Il chiavistello doveva essersi incastrato nella serratura. 

Il buio, il cuore, l’ansia e quella paura che cominciava a mangiarmi, quell’oscurità che continuava a divorarmi e poi il mio urlo, quello che mi usciva da dentro ed esplodeva nerissimo e cupo. Un urlo interminabile, capace di svegliare le streghe dell’inferno e interrompere la danza dei demoni e resuscitare esseri sopiti nel nero. 

Poi la porta si aprì, così la vidi. Il viso da vecchia, le rughe concentriche, gli occhi malvagi… Era lei…lei.

-Ma quando la finirete di urlare come folli in questo cortile? Non vi ferma nemmeno il diluvio universale! 

In un istante le mie gambe si fecero leggere e attraversarono d’un fiato lo spazio vitale della porta aperta. Correvo, correvo via, sotto la pioggia, finalmente libera. 

Non era la strega. 

Era lei, la signora del secondo piano, quella della bacinella azzurrina svuotata in cortile quando le nostre grida la facevano impazzire. 

Non era la strega. 

Forse. 

Perché adesso mi sembrava così chiaro il mistero oscuro dei suoi occhi malvagi. 

La bmx cross

Poi un giorno trovai, incastrato tra i fili dei freni della mia bici, un bigliettino piegato in quattro. 

Vuoi essere la mia fidanzata? SI o NO metti una croce. Lorenzo. 

L’amore veniva a cercare proprio me. 

Ed io mica volevo farmi trovare, accidenti. 

Del resto, era ormai chiaro che Enzigirl non avesse questa grande propensione all’amore. 

Ma Lorenzo non sembrava un tipo da combattere coi superpoteri. Era un ragazzino grassoccio, tutto lentiggini e occhioni, con un viso morbido da Moncicci che ti faceva deporre ogni arma. 

Però quella cosa di mettere la crocetta mi inquietava parecchio, così convocai il gran consiglio delle amiche e mostrai loro il biglietto. Ne uscii convinta che ero fortunata perché alle altre non era ancora capitata una cosa così. Ne uscii anche assordata dal loro simpatico coretto “Moncicci che fortuna averti qui!”

Allora sì, croce. 

Ma il fatto di essere la fidanzata di Lorenzo sembrava non cambiare di molto la mia vita. Non ci vedevamo mai. Ogni tanto mi faceva arrivare dei regalini, cose piccole, le gomme delle merendine del mulino bianco o gli adesivi di snoopy. 

L’amore era quella cosa lì. Rassicurante ma noiosissima. Ed io chissà che immaginavo, accidenti. 

Poi, però, arrivó Claudio. 

Aveva preso a girare in bici nel nostro cortile con i suoi amici grandi e a riempire di confusione quel pezzettino di mondo. 

Di lui sapevamo che era stato bocciato e sarebbe venuto in classe con noi in autunno. E, certo, era un tipo incredibile. 

Soprattutto, aveva una bici incredibile: una bmx cross col sellino lungo. Sulla ruota posteriore c’erano due tubi per appoggiarci i piedi e, proprio in mezzo al manubrio ricurvo, un cassetto per il walkman da cui uscivano i fili delle cuffiette che portava sempre agli orecchi. 

Enzigirl con quella bici lì avrebbe sconfitto qualunque nemico. 

Un giorno mi chiese di salire dietro per fare un giro. Aveva un profumo che sapeva di felicità. Stretta alla sua schiena, rimasi per un po’ a respirare quell’odore inatteso che aveva preso l’estate e ad ascoltare il rumore del battito d’ali impazzite delle farfalle nel mio stomaco. Eppure ero sempre stata convinta che Enzigirl fosse fatta di ferro. 

Qualche giorno dopo mi arrivò un altro biglietto da Lorenzo. 

Sei brutta come una scimmia. Sei ortopedica, hai un piede più grande di un altro. Ti lascio. 

Dopo una veloce controllatina ai miei piedi, ché non si sa mai, capii che il Moncicci si era trasformato in Gremlin e che c’era poco da fare, ormai. 

Il giro in bici con Claudio doveva essere stato un secchio d’acqua potente, non c’è che dire. 

E quella bella secchiata aveva cambiato anche me. Perché avevo capito che l’amore non è una cosa che rassicura, un universo quieto in cui riposare, stretti stretti al Monciccì. 

L’amore è una cosa che smuove, che squilibra, che spiazza, proprio come un giro sulla bmx cross. 

E non c’è nulla di più bello che seguire quell’istinto di felicità che sa farti respirare l’estate, seduta sul sellino di una bici che attraversa la penombra quieta del tuo mondo. 

Anche a costo di prendersi una bella secchiata d’acqua. Perché Enzigirl, pure se dicono sia fatta di ferro, non arrugginisce mica. 

In equilibrio 

Ad un certo punto dell’estate succedeva sempre che arrivava un pacco dall’America. Era il modo bello che avevano i nostri zii lontani per farci sentire che l’oceano non era poi questa distanza così incolmabile. 
La nostra curiosità davanti a quel pacco chiuso era, invece, ben più vasta dell’oceano. Perché ogni volta da quel pacco uscivano meraviglie. 

Di solito erano vestiti, ma sgargianti e incredibili, come solo le cose americane sanno essere. Una volta ne era uscita persino una maglietta di Topolino con la scritta Disney World, profumata di Florida e di un mondo lontano e misterioso che io e le mie sorelle potevamo solo sognare. 

Ma quella volta lì dal pacco uscì un oggetto strano. Era una tavola rossa con le ruote. Se guardavi bene notavi che nella plastica era impressa la scritta Skateboard. 

La tavola rossa, quando ci salivi sopra e spingevi con un piede, filava veloce come fosse aggrappata al vento dell’oceano. Peccato, però, che fosse così difficile starci sopra. Bisognava saperlo prendere bene, il vento dell’oceano. 

Quando portai la tavola rossa in cortile tutti a guardarla stupiti. Poi Pammi disse: 
-È uno skateboard come quello di Martin McFly! 

E giù a chiedermi di farglielo provare. Certo, io non sapevo chi fosse Martin McFly, ma chi era Pammi lo sapevo bene. Lo chiamavamo la Papera per via di quei suoi piedi che proprio non volevano saperne di restare dritti. Come avrebbe fatto Pammi la Papera a stare sulla mia tavola rossa era una cosa che suscitava potentemente la mia curiosità. Ma non ci volle molto per soddisfarla. Appena salito sullo skate, Pammi cadde giù. 

-E allora facci vedere tu come si va sullo skateboard! 

Ma io questo mica lo sapevo. E poi sullo skateboard non c’era un manubrio con un pulsante da schiacciare, quindi niente Enzigirl, accidenti. Siccome tirarsi indietro non era previsto, finì che resistetti in equilibrio per un po’ ma poi, quando la forza di una spinta non ben calcolata mi portò proprio davanti al muro di casa, non riuscii a girare e lo presi in pieno. Ecco, la casa stava per venire giù, non tanto per la mia botta, ma per il boato delle risate. 

Fu quella simpatica figura di melma che mi convinse della necessità di imparare l’equilibrio. 

Perché non ci misi molto a capire che era tutta una questione di equilibrio. Stare in piedi su una tavola, riuscire a bilanciare il peso per non farla ribaltare, scoprire il segreto delle curve, scegliere il momento giusto per saltare giù senza farsi male. 

L’equilibrio è una cosa che si impara. 

In cortile, come nella vita. 

E si impara a conservarlo, a riconoscere tutto quello che può annientarlo. Gli ostacoli, soprattutto, le mille pietre sul selciato che ti bloccano le ruote e ti fanno cadere. 

Si impara a capire, poi, che non sono tutti uguali, gli ostacoli. Ce ne sono alcuni che si possono superare con un colpo di reni e un po’ di spavalderia e ce sono altri, invece, che bisogna saper aggirare perché superarli non si può. E allora lì ci vuole l’umiltà di rinunciare. Magari anche scendere e ricominciare. 

È tutta una questione di equilibrio. Ma non strettamente in senso fisico. Ci vuole l’equilibrio di dentro. 

Ed è stato forse questo il regalo più bello trovato nelle scatole misteriose che ci arrivavano da oltreoceano. Imparare a restare in equilibrio nel vento, nonostante ogni ostacolo. 

Questo e, certo, la convinzione che comunque la mia bici scassata non l’avrei cambiata per nulla al mondo. 

Con buona pace di Pammi la Papera e del suo amico Marty McFly.